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Il mobbing sul luogo di lavoro.

Secondo l’orientamento maggioritario della giurisprudenza di legittimità, per mobbing s’intende la condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico – ma altresì di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi - sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili e che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l'emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità.
Affinché si configuri il mobbing, dunque, è necessaria la compresenza di: a) una molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio (leciti o illeciti) posti in essere in modo appositamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio (tra le tante, si leggano Cass. Sez. L. sent. n. 3785/2009; Cass. Sez. L. sent. n. 898/2014; Cass. Sez. L. sent. n. 17698/2014).

Pertanto, si può sostenere che la caratteristica tipica del mobbing sia la sussistenza di un disegno persecutorio nei confronti del dipendente, realizzato mediante reiterati e molteplici comportamenti vessatori, o, comunque, lesivi dell'integrità fisica e della personalità del lavoratore, protratti per un periodo di tempo apprezzabile e finalizzati alla sua emarginazione, ovvero all'espulsione dal contesto lavorativo. Tali comportamenti vessatori e lesivi possono esprimersi attraverso le più svariate condotte: attacchi alla possibilità di comunicare, isolamento sistematico del lavoratore, mutamenti delle mansioni che importino una dequalificazione, attacchi alla reputazione, offese e minacce (ex plurimis, Cass. Sez. L., sent. n. 10037/2015). Al contrario, le condotte vessatorie non possono consistere in meri episodi di inurbanità, scortesia o anche maleducazione, al più sintomatici di difficoltà relazionali esistenti nel contesto lavorativo, eventualmente amplificate dalla percezione soggettiva che il lavoratore ha delle proprie vicende lavorative (ex plurimis, Cass., Sez. L., sent. n. 19814/2013).

Inoltre, la circostanza che la condotta provenga da un altro dipendente, posto in posizione di supremazia gerarchica rispetto alla vittima, non è sufficiente ad escludere la responsabilità del datore di lavoro, sul quale incombono gli obblighi ex art. 2049 c.c., ove questo sia rimasto colpevolmente inerte nella rimozione del fatto lesivo, quando, con riferimento alla durata e alle modalità della condotta mobbizzante, possa ritenersi che di essa fosse a conoscenza anche il datore di lavoro. In tale caso si configurerà una responsabilità solidale del datore di lavoro e del dipendente autore materiale delle condotte lesive (v. Cass., Sez. L., sent. n. 10037/2015).

Grava sul lavoratore, infine, l'onere di specifica allegazione e prova dei singoli e reiterati fatti asseriti come lesivi e produttivi di danno, posti in essere dal datore di lavoro, ovvero da altro dipendente, dell'intento persecutorio, nonché dei pregiudizi subiti e del collegamento causale di questi ultimi con la condotta mobbizzante (Cass. Sez. L. sent. n. 19053/05; Cass. 21 maggio 2011 n. 12048; Cass. 26/3/2010 n. 7382).

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